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Rubriche
I suoi canti religiosi, al lato opposto,
costituiscono una mediazione rispetto ai
repertori classici della musica vocale
sacra?
“Anche i miei canti sacri si possono definire
‘polivocali’, più che polifonici, nel senso
che le voci procedono generalmente per
accordi, non in contrappunto.
Li ho scritti con l’intenzione di salvare una
parte di quella polifonia che nella musica
liturgica ormai è andata persa.
Da molto tempo, ormai, nella liturgia della
messa non si riesce più a trovare spazio per
nessuna espressione polifonica e per un
canto partecipato di alta qualità, come nella
liturgia protestante.
Sono rimaste solo espressioni povere, una
banalizzazione delle idee del Concilio, con
ragazzi che ‘grattano’ le chitarre e cantano
all’unisono melodie sciatte, ma anche testi
risibili.
Da un punto di vista musicale, la messa ha
cominciato a commemorare se stessa – come
dice lo scrittore Giovanni Testori.
Ora, rispetto alla grande produzione vocale
sacra, io non mi sono sentito propriamente
un ‘mediatore’, ma piuttosto un continuatore
ed elaboratore della semplicità.
Certi compositori accusano i miei pezzi sacri
di banalità, ma io
penso sempre a chi
sono destinati.
Cerco di far cantare le
persone, e in un modo
che allo stesso tempo
sia dignitoso, perché
mi rendo conto che
nella liturgia è andato
quasi tutto perso.
Sul fronte della musica di ispirazione
popolare, idem, penso ai coristi amatori che
dopo il lavoro arrivano a sera per cantare.
Non devono fare troppa fatica.
Cerco di salvare l’attività corale rendendola
‘viva’ musicalmente e attuale nei testi.
Penso però sempre più che sia un sogno, una
battaglia persa in partenza.”
Io non mi sono sentito
propriamente un “mediatore”,
ma piuttosto un continuatore ed
elaboratore della semplicità.